4.48. È a quest’ora che secondo le statistiche si è più attratti dal suicidio. “Psicosi delle 4 e 48” di Sarah Kane è il testo riportato in scena. Il dramma è stato recitato e diretto da Andrea Cramarossa che si è cimentato nella difficile impresa di essere il primo uomo ad impersonare il soggetto – donna – del testo. Si parla dell’uomo, del buio, del dolore, del silenzio e delle urla, del buio.
“Psicosi delle 4 e 48” di Sarah Kane si svolge nell’oscurità. Andrea, con una veste da sposa e una calza sul volto che ne mescola le fattezze, si muove adagio e silenzioso sul palco dando allo spettatore l’impressione di essere il fantasma di se stesso, un essere biancastro che si delinea nel buio generale.
“Psicosi delle 4 e 48” di Sarah Kane guarda impietoso nell’oscurità
La scelta della privazione della luce è stata la trovata geniale su cui si potrebbe basare metaforicamente l’intera rappresentazione. In scena non vi è più una donna che soffre di disturbi mentali e di depressione, ma una sagoma umana, l’interiorità stessa resa visibile che non può avere sesso né sembianze essendo ridotta al suo essenziale, un fascio di emozioni e dolori.
Andrea Cramarossa avanza, si gira, si perde e si ferma senza produrre alcun suolo, procedendo come in una danza di movimenti lenti e meditati senza slanci, nemmeno nella follia. Il tono di voce è volutamente inespressivo. In ogni aspetto il personaggio che rappresenta non ha segni distintivi, il dolore lo ha ormai privato di ogni cosa, non ci sono tracce di gioia, di rabbia, di lotta, manca perfino la noia, che è già un’emozione. L’uomo è inerme, vive ma è morto, non sopporta più di sentire la propria identità uccisa dai farmaci ma in fondo poco cambia, nulla ha realmente importanza.
Così anche il pubblico di “Psicosi delle 4 e 48” deve essere privato di qualcosa per poter entrare in sintonia con il dramma e viene quindi privato della luce, della vista. È facile vivere quando la luce rischiara i pensieri e mette ordine, è facile avere le risposte quando si riconoscono i problemi, è facile difendersi quando si riesce a vedere il nemico, ma nel buio? Nel buio il pubblico viene costretto e deve ascoltare. Non può avere risposte, perché non ce ne sono, e non può, non deve difendersi dal disordine interiore che l’uomo cerca di comunicare, dal dolore puro e crudo non frizionato dall’olio razionale.
Cala il buio della depressione
Il dramma ha inizio. Nel buio a volte ci sono incursioni di audio dalla forte carica simbolica, che mettono a tacere la voce dell’uomo ma completano il senso di quanto cercava di comunicare. A volte ci sono anche sprazzi di luce. L’intero discorso viene svolto dall’unico protagonista, ma in scena vengono portati diversi personaggi. Più che un monologo si potrebbe definire un dialogo che si svolge nella testa dell’uomo con se stesso, con il medico, con l’amata, con l’amante e con il suo lato razionale, quando resuscita dalla confusione creata dai farmaci. Quel momentaneo atto di luce prende la parola attraverso l’unico cambio di tono di Andrea Cramarossa, che rende le altre identità con una vocetta sottile e superficiale.
In “Psicosi delle 4 e 48” si conoscono in questo modo gli eventi e i pensieri più profondi e oscuri del protagonista. L’inadattabilità è inevitabile in un mondo fatto di luce, certezze e difese, specialmente se il desiderio di integrarsi viene da chi non nasconde i propri demoni e parla al cuore dei demoni altrui. Una forte alienazione che si risolve nel dolore di non essere corrisposto né amato, di essere un peso lasciato indietro e dimenticato, invisibile, inutile. Un flusso di pensieri conduce a spirale sempre più nelle viscere della depressione, in un vortice che sembra non avere mai fine, se non quella delle 4.48.
La morte come esito inevitabile
L’idea della morte non è un atto di liberazione per chi è ormai apatico e inerme alla vita, non lo è nemmeno dal dolore che ormai è parte integrante del proprio essere, un modo di farsi notare – forse? – per scoprire se a qualcuno importa abbastanza da correre in suo soccorso?
No, probabilmente per l’uomo non rappresenta nemmeno questo. Più un esito inevitabile, come la realizzazione esterna di quella morte che è già dentro di sé. Un morto che non vive, che in qualche momento si interroga, ma che giunge sempre alle stesse conclusioni, sempre le stesse conclusioni. Un letto di asfalto cosparso d’olio e in discesa, che se ti ci siedi arriverai inevitabilmente alla Fine, come se questo fosse l’unico esito possibile. Inevitabile.