“Satyricon” di Francesco Piccolo regala satira e saluta Petronio

Satyricon di Francesco Piccolo al Pompeii Theatrum Mundi

Il “Satyricon” di Francesco Piccolo con la regia di Andrea De Rosa, in scena al Teatro Grande degli Scavi di Pompei per il Pompeii Theatrum Mundi, è un grande omaggio a Petronio. Con lo scrittore romano condivide il linguaggio della satira, che in alcuni punti della messinscena eleva ai più alti livelli. Lo spettacolo usa come pretesto la cena di Trimalcione – schiavo liberto divenuto in breve ricco dopo la morte del suo padrone – per rappresentare tutta una serie di fenotipi, caratteri e luoghi comuni moderni, soprattutto vizi che stanno corrodendo dalle fondamenta la nostra società.

La scenografia del “Satyricon” è essenziale ma eccentrica, lasciando preludere allo spettatore appena arrivato cosa succederà. Il colore che regna ovunque è quello dell’oro, sia sul palco sia sul fondale sfavillante. Al centro, quasi a ridosso delle ultime invisibili quinte, campeggia un baldacchino di filamenti neri all’interno del quale è ben visibile su un podio un water d’oro, che sarà il pulpito dal quale Trimalcione, mastro di festa, elargirà morali ora filosofiche ora grottesche a tutti gli invitati ed in particolare alla moglie.

Il Satyricon di Francesco Piccolo e Andrea De Rosa denuda Fortunata

Trimalcione è interpretato da un irrefrenabile Antonino Iuorio, mentre la moglie – o meglio la vedova del padrone ora divenuta sua moglie – è incarnata da Noemi Apuzzo, che veste e sveste i panni di Fortunata nel Satyricon dimostrando al pubblico che, nonostante la sua ricchezza, poi così fortunata non è. La scelta di far esibire l’attrice completamente nuda per la quasi totalità dello spettacolo non risulta molto eccessiva se si considera l’ambiguità del suo personaggio: da un lato una Venere perfettamente incosciente e materialistica; dall’altro una ragazzina, buona d’animo, sensibile ai cambiamenti, che l’intervento dell’uomo provoca sulla natura, e tragicamente preoccupata delle conseguenze.

Se la Apuzzo/Fortunata in questo Satyricon è in parte scevra di costumi scenici ma costretta in questa doppia personalità, liberi di svariare sul palco sono invece la restante combriccola, gli invitati alla festa. A partire da Encolpio, Ascilto e Gitone interpretati in ordine sparso da Flavio Francucci, Lorenzo Parrotto e Andrea Volpetti che irrompono per primi in scena con grande personalità. La loro forte presenza, la verve comica, il ritmo saranno fondamentali per lo svolgimento di tutto lo spettacolo.

Sicuramente il cast è stato molto aiutato dai dialoghi, freschi, vivi, serrati, vivaci, ritmici, comici, ad effetto, a volte esilaranti, a volte volutamente privi di significato, ma sempre nella direzione di fare satira. Una buona usanza che il teatro contemporaneo necessita portare avanti, specialmente in questo periodo storico pieno di risvolti politici pericolosamente condizionanti per il mondo della cultura in generale.

La satira sull’impoverimento del linguaggio al ritmo di musica

È proprio questo il solco che Francesco Piccolo e Andrea De Rosa delineano e indicano al pubblico: il suggerimento di prestare più attenzione al linguaggio. L’impoverimento del linguaggio, la mancanza di comunicativa, l’abitudine a relazionarsi in maniera pigra, assente e dissociata lascia spazio a un’infinità di luoghi comuni, che proprio sul palco la fanno da padrone. Per assurdo è passando attraverso tutte queste frasi fatte, tutti questi personaggi pervasivi del vivere quotidiano, che lo spettatore riesce a sperimentare una catarsi per distaccarsi dai pregiudizi e ritornare al sentire comune, al senso di collettività reale, che è la base per poter cambiare in positivo il mondo.

«Stai attento ai tuoi pensieri, perché diventeranno le tue parole. Le parole…azioni. Le azioni…abitudini. Le abitudini…carattere. Il tuo carattere…il tuo destino!»

Il successo del “Satyricon” di Francesco Piccolo passa attraverso tanti ingredienti ben congeniali, su tutto il lavoro corale. Si vede tantissimo la professionalità e il cuore che hanno speso gli attori nell’assecondare una regia che non li ha visti mai fermi sul palco, ma sempre a marcare gli accenti, spesso e volentieri scanditi addirittura da un metronomo posto al centro in proscenio. Un modo fantastico con cui il gruppo si mostra al pubblico e che, con abile maestria di caratterizzazione dei personaggi, ha eluso il rischio di risultare un puro esercizio di stile, un mettersi in bella mostra. Caratteristi eccezionali lo sono stati un po’ tutti e questo ha fatto un gran divertire e riflettere.

Un cast di prim’ordine. Ritmi serrati per un successo garantito

I complimenti vanno ad Alessandra Borgia, Francesca Cutolo, Michelangelo Dalisi, Serena Mazzei e Anna Redi. I loro personaggi si prendevano beffe di tipologie umane accuratamente identificate, selezionate e date in pasto al grande pubblico, dal produttore al consumatore insomma, ma prima sofisticate ad arte. In scena c’era il grande intellettuale impegnato che firmava tutti i tipi di petizioni possibili e immaginabili. Ne firmava così tante da appoggiare ora un’iniziativa, ora il suo esatto opposto. Poi c’era l’attrice impegnata, la paladina, che voleva salvare la vita del teatro e mentre parlava perdeva pezzi di cultura, libri che cadevano dappertutto.

La donna delle canzoni che parlava solo citando testi famosi, memorabile il riferimento a “Nessun dolore” di Battisti – «non sento niente, nessun dolore» – puntando i riflettori sull’apatia del nostro inizio millennio. La signora disperata che cambiava spasmodicamente compagni per poi affogare il dispiacere nella cocaina. E la ragazza anoressica, interpretata da una Serena Mazzei che sembrava uscita da un musical americano per quanto era in forma: pronta, attenta, vivace ed espressiva. La resa scenica di tutti è stata molto efficace sia nei ruoli singoli e sia nelle corali.

Antonino Iuorio nelle vesti di Trimalcione

Antonino Iuorio in particolare è riuscito a portare avanti il gravoso ruolo di un Trimalcione proiettato nella contemporaneità, a lui la bravura di aver saputo cogliere l’essenza della tradizione romana e romanesca, farla propria e renderla ai giorni nostri, senza eccessi di rivisitazione, senza mai tradirla. A lui il compito di ricordarci che a certi livelli i soldi non sono più un mezzo di scambio per ottenere merci o servizi, ma servono solo per averceli, avere altri soldi, fare altri soldi. «Mentre gli altri vanno a mare, tu fai i soldi», recita Antonino Iuorio mentre spera in cuor suo che il messaggio passi, e intanto passano in rassegna le varie decadenze della società. Sta alle parole delle canzoni, per bocca di Francesca Cutolo, traghettarci verso il finale dello spettacolo. Lei farà da Caronte verso la dissoluzione post festa.

«Perché in fondo tutto quello che fanno nella vita lo devono dimostrare a una festa.»

Sul finire dello spettacolo – riguardoso a livello letterario del “Satyricon” di Petronio – porge a chi abita meno la letteratura romana, uno scenario un po’ più cinematografico. Il rimando di Francesco Piccolo è a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che aveva affrontato il tema della dissoluzione attraverso l’immagine della cena/festa, come nella scena della cena di Trimalcione in Petronio. Senza ardire alcun paragone cinematografico, l’immagine serve solo a far comprendere a chi non lo ha visto a teatro, la portata di questo spettacolo.

Un bagno di applausi per il Satyricon di Francesco Piccolo

Le scene e i costumi, affidati a Simone Mannino, sono stati tutti molto appropriati. Il disegno luci era di Pasquale Mari, abile a superare la difficoltà di rifrazione di luce che crea una scenografia totalmente dorata, lo ha fatto con l’utilizzo di semplici proiettori nudi ben posizionati e con l’introduzione di proiettori color ghiaccio per valorizzare diversi momenti interpretativi sul palco e la purezza di Fortunata in questo Satyricon. Il disegno del suono era di G.U.P. Alcaro, molto interessante la scelta di ovattare in alcuni punti il canoro della Cutolo. Le coreografie lineari e molto fruibili erano della stessa Anna Redi.

Il “Satyricon” di Francesco Piccolo non è stato un semplice spettacolo teatrale, ma un gesto d’amore nei confronti del pubblico e più ampiamente di una società che ha bisogno di rispecchiarsi, di riflettersi per riflettere e tornare ad abitare dei valori più umani, in una parola per ritrovarsi. Tantissimi partecipanti si son ritrovati ad applaudire a scena aperta sul finale, tantissimi ad assistere fino alla fine. Un bel segnale, un teatro gremito ad indicare l’ottimo lavoro svolto che, al giorno d’oggi, non per forza avrebbe dovuto incuriosire così tanto.

Quello che colpisce è la comunicativa, il linguaggio teatrale utilizzato: moderno nella messinscena, contemporaneo nelle parole, trasversale a tutti i target di partecipanti. Un linguaggio universale, che a tratti eleva lo spettatore e a tratti lo scaraventa nella volgarità più assoluta, ma sempre mirando a farlo riflettere. Anche quando ammicca al sorriso, lo fa con arte, tingendosi di comicità brillante e di un grottesco quasi mai fine a se stesso. Penetra nelle ossa, va a riprogrammare il DNA dello spettatore con informazioni che normalmente si tende a dimenticare, ma che saranno utili per la sopravvivenza del genere umano su questo pianeta.

Un teatro per tornare a sentirci umani

Detta così può sembrare una boriosa rappresentazione teatrale, invece è quel misto di alto e basso che serve per fornire gli spunti a chi esce dal teatro per riguardare il mondo quotidiano con occhi diversi. Il gioco con i luoghi comuni, i caratteri e le tipologie umane messi in scena estremizzati con misura, caricaturati il giusto e il linguaggio della satira sviluppato in alcuni momenti alla sua pura eccellenza  – come la critica alla decadenza di Roma, piena di cose «rotte perché chi deve aggiustare non vuole essere rotto» – uniti alla stupenda cornice, hanno fatto viaggiare tutti lontano di 2000 anni, per poi tornare a capire che non è cambiato moltissimo ai giorni nostri.

E allora bagni di umiltà e misura nei giudizi, evitare i pregiudizi o i luoghi comuni per capire quanto le parole siano importanti e a volte i silenzi necessari.  Un sentire comune esiste sempre e non bisogna rinnegarlo. A tutti scorre sangue nelle vene, non importa se a qualcuno questo rosso si sia contaminato con l’oro. “Gli altri” non sono loro, “gli altri” siamo tutti da sempre, da 2000 anni, ma ancor prima dalla notte dei tempi. E quale migliore cornice di un tempio teatrale sopravvissuto ad un’eruzione vulcanica per ricordarcelo. Il “Satyricon” di Francesco Piccolo riaccende il faro sulle potenzialità della nostra virtù più bistrattata: l’umanità. L’augurio è che questo lavoro possa avere ulteriore e ampia diffusione, in modo da portare il suo messaggio a un maggior numero possibile di spettatori.

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