
Un gangster movie atipico. Per definire “The Irishman” di Martin Scorsese non c’è definizione più azzeccata. Nonostante ne segua tutte le principali regole è ben lontano dai classici film del genere. Introspettivo e drammatico, con “The Irishman” Scorsese mostra di padroneggiare completamente il genere gangster arrivando addirittura a reinventarlo, offrendo uno sguardo intimista della vita di un ex criminale, interpretato da un impareggiabile Robert De Niro.
«I generi cinematografici classici più interessanti per me sono quelli autoctoni: i Western, nati sulla Frontiera, i Gangster movies, originari delle città dell’East Coast e i Musical prodotti da Broadway» – Martin Scorsese
Sebbene sia tratto dal libro “I heard you paint houses” di Charles Brandt, “The Irishman” è ben lontano dall’essere una semplice trasposizione cinematografica. In questa pellicola Martin Scorsese manovra la materia prima piegandola alla sua volontà, senza snaturarne il significato più profondo. Al contrario, avvalendosi di una regia maestosa ed ineccepibile, gestisce l’intero film donando alla narrazione un inaspe ttato pathos, riservando per il finale dei particolari drammatici che nel libro comparivano, invece, all’inizio.
“The Irishman” di Martin Scorsese mette in scena la confessione di un ex-gangster
“The Irishman” prende il via con un lungo piano-sequenza che mostra con estrema precisione la desolazione della vita del protagonista e narratore, Frank Sheeran, giunto ormai alla fine della sua vita. Abbandonato dalla sua famiglia, allontanatasi a causa dei suoi numerosi crimini, e dai suoi amici, ormai tutti morti, l’irlandese Frank Sheeran ricorda con amarezza i tempi passati. Con un monologo che rompe la quarta parete, il protagonista si rivolge direttamente allo spettatore e ricostruisce le tappe fondamentali del suo percorso come criminale. Dagli inizi come piccolo truffatore fino all’ascesa come protetto del boss della mafia italoamericana Russell Bufalino (Joe Pesci), lo spettatore assiste alla costruzione di una tragedia preannunciata e accetta la dolorosa confessione di Frank, non potendo tuttavia evitare di emettere giudizi. Nonostante il tono della narrazione non sia propriamente accusatorio – né tantomeno celebrativo – lo spettatore non può fare a meno di giudicare negativamente il protagonista, empatizzando con la figlia Peggy (Anna Paquin) che guarda suo padre con disprezzo.
«Da giovane credevo che gli imbianchini imbiancassero le case. Che ne sapevo? Ero solo un operaio. Uno tra migliaia, finché non lo fui più e iniziai a imbiancare case anch’io.» – Frank Sheeran
La solitudine del malvagio
La fotografia austera e pulita – caratterizzata da colori caldi e luce diffusa che però non trasmettono accoglienza – accentua la sensazione di desolazione già suggerita dagli eventi narrati. Frank Sheeran ha vissuto un’esistenza vuota e cinica, costellata da crimini efferati e omicidi a sangue freddo. Risulta pertanto difficile credergli quando, ormai invecchiato, afferma di non avere rimpianti. La criminalità organizzata ha influenzato pesantemente la sua esistenza, costringendolo a scegliere fra la fedeltà al boss e la sua amicizia col sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino). Nella scena in cui Russell Bufalino lascia intendere a Frank che dovrà essere proprio lui ad uccidere il suo amico, emerge con prepotenza tutta la drammaticità della pellicola. Frank è impotente davanti al giudizio del boss ed è costretto a sottostare al suo comando per poter continuare a ricevere protezione per sé e la sua famiglia, anche se questo vuol dire tradire la sua amicizia con Jimmy e ucciderlo.
«Era come l’esercito. Eseguivi gli ordini. Facevi la cosa giusta e venivi ricompensato. Per Russell non lavoravi per i soldi, ma per il rispetto.» – Frank Sheeran
Con la sequenza finale la narrazione ritorna al presente chiudendo il cerchio aperto con la prima inquadratura. Frank è solo e rinchiuso in una casa di riposo, dopo aver passato diciotto anni in galera. Ormai non gli resta più nulla, se non il ricordo di ciò che ha perso. Il crimine, che ha dominato gran parte della sua vita, si è rivelato nient’altro che una vana promessa di gloria. Le scene all’interno della casa di riposo mettono in risalto la tristezza e la solitudine a cui Frank si è condannato scegliendo di dedicare la sua vita alla mafia.
Passato e futuro si incontrano in “The Irishman” di Martin Scorsese
Indubbiamente “The Irishman” di Martin Scorsese è un film che si regge sull’unione e sul contrasto fra passato e futuro. È un film che parla di malinconia e ricordi, ma in modo del tutto nuovo. Frank Sheeran mantiene per la maggior parte del tempo un’espressione indecifrabile, che non lascia trasparire chiaramente le sue emozioni. Tuttavia lo spettatore è ben presto trascinato in una spirale emotiva via via più profonda, fino alla straziante, ma inevitabile, conclusione.
La modernità irrompe prepotentemente soprattutto grazie alle tecniche di ringiovanimento in cgi utilizzate sui tre attori protagonisti Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci. Eppure la computer-grafica non entra in nessun modo in contrasto con l’atmosfera generale della pellicola, né rende le interpretazioni meno convincenti o credibili. Martin Scorsese ha scelto di omaggiare i gangster movie, un genere inevitabilmente legato al passato, rivisitandoli in chiave moderna e dandogli nuovo lustro. “The Irishman” è il risultato di un riuscitissimo mix fra passato e modernità. La maestria di un cineasta divenuto ormai leggenda celebra l’epoca d’oro del cinema portandola all’inevitabile contaminazione con le nuove tecniche cinematografiche, donando al pubblico il perfetto gangster movie moderno.