
«Sick Boy era coperto di sudore; tremava tutto. Io me ne stavo lì soffiato davanti alla tele, cercando di non dargli retta, a quel coglione. Mi buttava giù. Provai a concentrarmi così sulla cassetta di Jean-Claude Van Damme.» – “Trainspotting” di Irvine Welsh
Al teatro Piccolo Bellini di Napoli sta riscuotendo successi “Trainspotting”, uno spettacolo di Sandro Mabellini, che ha portato in scena la rivisitazione del romanzo dell’autore libanese Wajdi Mouwad, sulla traduzione di Emanuele Androvandi.
“Trainspotting” ormai può essere considerato un classico, quando uscì il romanzo il successo fu immediato, ma non si trattava soltanto di marketing. Una generazione si sentiva rappresentata, perché per la prima volta le veniva data voce. Probabilmente ancora più nota è la sua trasposizione cinematografica, diretta da Danny Boyle e interpretata da Ewan McGregor. Uscì nel 1996 e fu uno scandalo.
Trainspotting porta a teatro l’onesta e spietata realtà
La sala gremita del teatro preannuncia il successo di questo spettacolo. Nell’attesa i quattro attori protagonisti non sono rintanati dietro le quinte, non spiano da dietro il sipario, ma si presentano già seduti sul palco, in attesa, vestiti solo di biancheria intima. Velocemente si vestono e lo spettacolo inizia. Durante tutta la durata dello spettacolo gli attori si vestono e si spogliano, cambiano ruoli e personaggi, muovono luci, creano atmosfere, senza perdere mai il ritmo comico e drammatico, leggero e carico d’angoscia delle battute.
Subito è chiaro che “Trainspotting” di Sandro Mabellini riesce ad esaltare la virtù più nobile del romanzo, che è stata anche la ragione della sua fortuna: la verità. Non è uno spettacolo semplice, è uno spettacolo onesto. Non ha paura raccontare l’eroina per quello che è. Racconta il piacere, il piacere seduttivo della droga, “meglio del sesso”, meglio del migliore orgasmo che si può provare in una vita intera. La droga come alternativa, come negazione di una società inebetita e nei cui valori non ci si riconosce. Ma racconta anche il dolore: neonati lasciati morire di inedia, il senso di colpa, l’AIDS, il cinismo degli spacciatori, l’indifferenza degli amici, la noia, il vuoto e la depressione. A tratti, la disperazione.
Racconta i tentativi di “uscirne”, la maggior parte delle volte, vani. Racconta l’eroina esattamente per quello che è ad un mondo estraniato e borghese che non ne sa nulla, guarda solo da lontano e vorrebbe tanto potersi girare dall’altra parte. Ma lo spettacolo questo non lo permette. Si parla di sangue, sostanze fecali, sudorazione, sesso indifferente e casuale, aghi, vomito, sporcizia, violenza. Il linguaggio è intenso, a volte volgare, spesso malinconico.
La riduzione teatrale di Sandro Mabellini critica la società
Gli interpreti, Michele di Giacomo, Valentina Cardinali, Riccardo Festa e Marco S. Bellocchio, danno prova di straordinaria bravura, non solo negli intensi monologhi, ma anche nell’uso magistrale dei ritmi comici. Distruggono e ricostruiscono continuamente atmosfere, personaggi, ambientazioni, riuscendo a coinvolgere lo spettatore facendolo passare, con straordinaria velocità, dal ridere di cuore ad uno stato di profonda introspezione.
Lo spazio scenico, curato da Chiara Amaltea Ciarelli, è scarno ed essenziale. Il palco di legno scuro e le pareti nere sono la base per alcune parole tracciate sullo sfondo con delle strisce di scotch bianco, di nota qualche sedia, un piccolo televisore e una tenda da campeggio azzurra. L’elemento scenico dalla maggiore valenza simbolica consiste in quattro led gialli “mobili” attaccati a dei fili e di volta in volta accesi o spenti dagli attori. Questa trovata scenica ha dato vita ad originali effetti di luce, consentendo di spostare l’attenzione su un personaggio o di avvolgerne nell’ombra un altro. Ancora più d’impatto è stata la valenza della tenda in scena, che nel momento più opportuno si è trasformata in un elemento di parossismo dell’angoscia. È stata usata per nascondere quello che neanche uno spettacolo così ardito può mostrare: l’osceno.
Le musiche sono state messe direttamente dagli attori in scena. Si passa dalla techno ad Albano, ma risultano tutte particolarmente indovinate rispetto alla scena. Sandro Mabellini attraverso il magistrale uso dell’ironia e dei monologhi fa una feroce critica alla società. «Era bello sentirsi diversi», dice Alison ad un certo punto, e forse è questa la vera ragione per cui si cade: non la noia o la solitudine, ma il disprezzo.
Lo spettatore non è mai lasciato a se stesso, ma viene trascinato in un vortice di suggestioni destabilizzanti. Provare a capire cosa pensa chi fa uso di eroina, supporre che l’abbiano scelto davvero, chiedersi il perché… Il mutuo, la famiglia, il televisore al plasma… Scoprire che queste cose rendono tutti infelici. Questo spettacolo nasce raccontando l’apatia dei “tossici” e finisce per dirci che non siamo diversi, che quel vuoto è il nostro, che finché non guarderemo in faccia la realtà, non saremo mai davvero salvi.