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Vladimiro mira il mare, Paola Tortora e lo smarrimento dell’essere

By Luca Pinto
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Vladimiro mira il mare di Paola Tortora al Napoli Teatro Festival

“Vladimiro mira il mare. Dell’ingestibile smarrimento dell’essere” di Paola Tortora sogna e fa sognare il pubblico di un sempre più emozionante Napoli Teatro Festival, nel cortile delle carrozze al Palazzo Reale di Napoli, accompagnato dalla Capra Dea Amaltea e dal musico Profeta.

Paola Tortora attrice e autrice del lavoro teatrale, “partitura per voce corpo capra e contrabbasso”, trasporta maestosamente il pubblico nel viaggio di Vladimiro. Con un impeccabile senso della misura, la performer si districa nella tortuosa tematica dello smarrimento dell’essere al cospetto dell’Universo. Un coniglio, o meglio una capra estratta dal cilindro di un progetto dal titolo  “Solit’aria”. Progetto per attrice sola e musicista che la vede impegnata in diversi spettacoli di natura filosofica e musicale per voce sola e strumento dal vivo già dal 2015.

Paola Tortora è napoletana di origine, ma cittadina del mondo o meglio del mare che incontra la Terra, sin da piccola si è ritrovata a viaggiare per il Mediterraneo e oltre. Questa è solo una delle esperienze significative che Paola, architetto, attrice, scrittrice, trainer, danzatrice, pianista e sportiva, racchiude in sé e dischiude al pubblico generosamente senza mai tirarsi indietro.

‘Vladimiro mira il mare’ di Paola Tortora sullo smarrimento dell’anima

In scena con Paola, c’è al contrabbasso Stefano Profeta e nel ruolo di co-protagonista la capra denominata Amaltea, che rappresenta l’anima di Vladimiro. Tutti e tre gli artisti sono abili a non pestarsi mai i piedi, ma lavorano il più possibile all’unisono. Sembra assurdo che ci sia una capra in scena, protetta certamente da un recinto, coccolata da mangime, carote e fieno… ma pur sempre una capra. Ebbene niente di più adatto come un animale poteva interpretare il ruolo dell’anima.

Amaltea si muove a passi lenti, delicati, non disturba mai l’incedere dell’attrice; anzi la osserva, prende pose plastiche sul palco, gioca con lei e sembra quasi consapevole del ruolo che svolge. Una capra che fa la capra sul palco. Che fa la Dea, l’anima. A volte derisa, a volte cavalcata o presa per le corna da Vladimiro, ma mai mancata di rispetto, venerata al pari di una dea indiana. Ci fa quasi dimenticare che è stata la Tortora a studiare il modo di interagire con delicatezza e bellezza con essa, anzi con Lei. Di sicuro tra di loro c’è una complicità di eloquente magia.

Vladimiro e Amaltea due personaggi opposti figli dello stesso grembo

Questa novità interattiva uomo-animale in “Vladimiro mira il mare” di Paola Tortora non distoglie lo spettatore dal seguire il testo dello spettacolo. È col linguaggio verbale che Vladimiro, voce cavernosa, e Amaltea – doppiata da Paola – irrompono in scena. Dall’inizio non è facile capire se ci troviamo di fronte un uomo o una donna a interpretare, questo perché la regista e attrice lavora abilmente con la voce, oltre che col corpo. Le sue parole sono di una musicalità interessante e se da un lato interagisce con Amaltea-animale, dall’altro interagisce con se stessa e col contrabbasso di Stefano Profeta, creando una bi-vocalità che la rende doppia. Le parole, il labirinto laborioso, articolato e filosofico, grande al punto da prendersi in giro da solo, avvicinano lo spettatore ai contenuti e non disdegnano una vena di comicità a volte lievemente grottesca, sicuramente brillante, prezioso ingrediente di quella misuratezza di cui sopra.

Ritornando alla musicalità delle parole, sillabate in musica, cantate teatralmente, alla ricercatezza dei suoni, un passaggio va fatto sugli interventi musicali di Stefano Profeta. In questo senso lui lavora da doppiatore: il suo leggìo è quello di un maestro di dubbing, il suo contrabbasso è uno strumento fuori dalle righe, usato sì per suonare e creare atmosfere, ma anche per creare suggestioni sonore, per giocare, impreziosire, schernire o corroborare i contenuti. E se ardito o sgradito può sembrare il parallelo col doppiatore, esso va soltanto a qualificarlo come un doppio attore che, a vista del pubblico, è tenuto a interpretare ciò che altrove avviene dietro le quinte. Anche lui strizza l’occhio ad Amaltea diverse volte solleticando gli angoli delle labbra degli spettatori a sollevarsi verso l’alto.

Vladimiro, uomo comune nobilitato da Chaplin e Beckett, incontra Eros e Thanatos

Nel comparto luci di scena, a cura di Massimo Vesco e Paola Tortora, una scelta interessante è l’utilizzo dei sagomatori. Sotto il cielo, ben nascosti, i fari sagomati producono ora linee continue ora forme quadrangolari sul fondale del palcoscenico. Rimandano con semplicità architettonica ad un altrove, un sogno metafisico, il viaggio di Vladimiro, il suo smarrimento, alla ricerca di un onirico o reale Godot? In realtà il fine di Vladimiro, comune mortale, Chaplin Beckettiano che unisce la clowneria alla più affascinante meschinità, è la meta. È troppo pragmatico per capire ciò che Amaltea sa sin dall’inizio, e cioè che il fine è come sempre il viaggio.

Vladimiro infatti attraversa tanti momenti cruciali dell’esistenza umana, dalla nascita, alla morte, alla sessualità, e intanto ci ricorda quanto stiamo scomparendo dal mondo reale, quanto non siamo presenti a noi stessi e quanto abbia ragione quella vocina a inizio spettacolo che ammonisce di spegnere i cellulari perché ci troviamo a teatro, il luogo del qui ed ora e non possiamo essere assenti e alienati.

La scenografia prende vita dagli abili gesti di Paola Tortora

Vladimiro mira il mare ma anche il cielo, senza aspettare Godot, lui lo ricerca. La luce della sagoma blu, orizzontale sul fondale crea la linea dell’orizzonte, una semplice linea rettangolare. Semplice per i non addetti ai lavori, ma un vero tocco di sobrietà e potere immaginifico, si illumina quando Vladimiro mira il cielo. Sul palco è accompagnato da elementi scenici ben strutturati ed utilizzati ad arte da Paola Tortora. Vi sono sospesi un secchio, un imbuto, un bastone di bambù che Vladimiro ogni tanto appende e “disappende”; del fieno, una sdraio, una sedia e delle carote nel secchio per la capra, oltre a piccoli contenitori di mangime, e 8 quintali di sale.

Vladimiro gioca con questo sale sul palco, non solo pende dall’alto come un burattino, sin dall’inizio il richiamo è molto forte. Paola Tortora tende spesso le mani verso l’alto, in pose che sicuramente ammiccano al “burattinaggio” o perlomeno lo lambiscono: le buffe camminate clownesche e la scena in cui Vladimiro rimane incastrato in una sedia sono un gioco bellissimo, un momento in cui l’attrice dice al pubblico «io sono parte di questa scenografia». Lei da vita agli oggetti e gli oggetti rivivono con lei. Questa teatralità è semplicemente stupenda, affascinante, coinvolgente, in una parola onirica e ci porta nel sogno di Vladimiro.

Vladimiro si fa am-mira-re sul palco del Napoli Teatro Festival

Vladimiro fa tantissime cose sul palco: nasce, fa sesso, va in povertà. Come un simpatico zingaro dell’Ego viaggia dentro se stesso ma universalizza gli archetipi umani. Indaga scava e risale su a mirare il mare, il cui «livello è superiore al nostro.» Vede «improvvisi acquazzoni e surriscaldamenti globali pericolo di menopausa cosmica.» Vladimiro racconta la sua povertà, diventa luce e infine si ripromette di «stare zitto e ascoltare i rumori del mondo.»

Vladimiro è l’incarnazione dell’uomo medio del XXI secolo. Amaltea lo sprona spesso, lei non sa rispondergli alla domanda su «perché siamo al mondo.» «Forse per cambiare» gli replica, ma di sicuro lo invita ad «insistere nella ricerca», ad aver «cura della propria natura» a «saper stare fra le cose.» Questi ed altri spunti di forte impatto emergono dal finale dello spettacolo. E tra gli applausi scroscianti e incessanti che fanno venire i brividi anche alla capra Amaltea, Paola Tortora sottolinea lo sforzo per ritornare parte della natura di cui ci siamo dimenticati con un’iniziativa che porta a conoscenza del pubblico del Napoli Teatro Festival.

“Adotta una capra….. e il Cilento vive!” così recitava un gruppo facebook di pochi anni fa, adesso è nata una start-up agricola che permette di adottare una capra a distanza; la fauna si ripopola e i giovani cercano di rimanere nel Cilento senza emigrare. Dunque buona la prima napoletana, “Vladimiro mira il mare” di Paola Tortora convince. Dai tecnici, agli interpreti sul palco l’impegno profuso raggiunge il cuore del pubblico e la menzione speciale va alla giovane artista, la splendida e tenerissima capra bianca nel ruolo di Amaltea.

  • Paola
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Author

Luca Pinto

C'è un amore che viene da lontano, nasce con l'uomo e con la sua capacità di uscire fuori da sé per osservarsi, immedesimarsi e ri-prodursi. Il suo nome è Teatro: gli sono fedele da sempre!

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“Antigone” di Ichòs Zoe Teatro. Un ponte tra presente e passato

By Luca Pinto
Antigone di Ichòs Zoe Teatro

L'”Antigone” di Ichòs Zoe Teatro con la regia di Salvatore Mattiello è paragonabile ad un grappolo d’uva, i cui chicchi hanno sapori sempre più sorprendenti. Un grappolo che si può gustare a livello superficiale, mangiando prima la parte esterna, o partendo metodicamente dal basso. C’è una terza soluzione molto interessante, cioè quella di prendere un chicco esterno in una posizione definita e poi andare al cuore, seguendo una linea logica tra dentro e fuori, ma non per forza didascalica. È questa la strada che ci propone Salvatore Mattiello. Una Antigone che parte dai tempi odierni e ritorna al mito e viceversa, pur rimanendo fedele alla consequenzialità temporale del mito stesso.

Questa strategia diegetica tiene molto viva l’attenzione dello spettatore e allo stesso tempo permette agli attori di sfruttare in corso d’opera la tragedia greca per far riflettere il pubblico su tematiche contemporanee. Gli interpreti sono Giorgia Dell’Aversano (Antigone), Giuseppe Giannelli (Creonte), Rossella Sabatini (Ismene) e Ivano Salipante (Emone).

“Antigone” di Ichòs Zoe Teatro. Una meravigliosa mina vagante

Antigone è una giovane ribelle condannata a morte per aver disobbedito all’editto di un re. Questa è la storia se la leggiamo a livello superficiale. Ovviamente ci sono tanti livelli fondamentali. Intanto il re Creonte non è soltanto un re, è lo zio di Antigone. È un re che condanna una suddita ma, come ci fa riflettere la messinscena, è un essere umano, costretto anche dagli eventi politici a condannare a morte la nipote. Antigone, che viola l’editto, lo fa perché lo stesso le impone di non dare degna sepoltura al fratello Polinice, in quanto Polinice si era schierato contro l’altro fratello Eteocle, alleandosi con la città di Argo per conquistare Tebe.

Antigone non è una semplice ribelle, lei è figlia dell’incestuoso Edipo che ha ucciso il padre e messa incinta la madre Giocasta, sorella dello zio – e poi re – Creonte. Inoltre Antigone ha una relazione col figlio del re, Emone. I due si amano intensamente, al punto che dalla loro unione sta per nascere un figlio. Antigone rappresenta una mina vagante per il potere costituito, deve morire. Ismene, sua sorella, dopo uno scontro inziale, deciderà di segurila in questa crociata verso la difesa dell’onore di Polinice soltanto quando Antigone sarà già stata condannata a morte. L’episodio è stato diligentemente utilizzato dal regista per creare un’ulteriore prova da superare prima di giungere – attori e spettatori insieme – verso il finale dell’opera.

Lo stile drammatico con un pizzico di Cocteau

Lo stile recitativo drammatico è inteso in un senso che va verso il teatro classico, come la tragedia greca certamente impone, ed è stato finemente utilizzato anche per passare alle riflessioni sulla contemporaneità. Alla lunga potrebbe però risultare poco dinamico, rischiando a tratti di limitare l’espressività degli attori, costretti in una griglia troppo ben definita. La dinamica dentro/fuori dal mito è stata alquanto interessante così come i riferimenti all’attuale questione migranti e la critica sulle religioni, portata avanti con una discreta metateatralità che ha tenuto i presenti attenti fino alla fine.

Del resto la bravura di Mattiello nel creare il grappolo e muoversi all’interno, denota un certosino lavoro sui testi di Sofocle e Brecht in particolare. Il porre l’attenzione sulla donna Antigone, che si sottrae al giudizio dell’uomo che la condannerà, strizza l’occhio a Jean Cocteau, che non poteva rimanere inconsiderato mettendo mano ad un’opera di una responsabilità così importante.

“Antigone” di Ichòs Zoe Teatro. La compagnia

La compagnia Ichòs Zoe Teatro chiama gli spettatori a non essere meri auditori, ma partecipanti, testimoni attivi della messinscena. Una realtà ventennale a San Giovanni a Teduccio, nella periferia di Napoli; un piccolo teatro che è un vero gioiello, dove ogni cosa è stata incastonata ad arte.

Una riflessione è doverosa sul comparto luci, – tutte posizionate in maniera funzionale – che ha contribuito ad abbattere la quarta parete teatrale. L’utilizzo dell’ambra in apertura, i proiettori posizionati perpendicolarmente alle quinte e direttamente sul palco, le luci dirette a incrocio sugli attori ed i sagomatori, hanno contribuito a valorizzare il lavoro degli attori ed i costumi, per niente scontati, di Roberta Sorabella. Tutto è stato coordinato magistralmente con le avvolgenti musiche e suoni ad opera di LA-Nu, Claudio Marino e Gino Potrano.  Una chicca l’utilizzo dei sagomatori nella scena che contrapponeva Antigone a Creonte come fotografia e negativo l’uno dell’altra. Un’utilizzo particolare degli elementi scenografici uniti al colore ambra renderanno il finale fortemente significativo.

Un Antigone fenice ismenica

Soffermandoci sul finale proposto dall’ “Antigone” di Ichòs Zoe Teatro, possiamo rispondere alla domanda che ci propone questo lavoro: “Cosa significa essere Antigone oggi?”

C’è ancora luce e speranza se proprio Ismene, sorella di Antigone, la più impreparata ad affrontare la tragedia che le verrà riversata addosso, è unica sopravvissuta e genitrice di una nuova donna di nome Antigone. Una nuova regina che, in quanto donna, continuerà a procreare vita.

Essere Antigone oggi vuol dire semplicemente verificare le notizie prima di pubblicarle, vuol dire impegnarsi attivamente per difendere il proprio territorio e la propria creatività ed originalità a discapito di chi usa strumenti di controllo sociale per soffocarla, uniformarla e governarla. Vuol dire con una gran prova di coraggio scendere in piazza, che sia per protestare, cooperare, organizzarsi o semplicemente socializzare. Perché il conflitto della polis ormai si è spostato ad un livello talmente etereo da risultare impercepibile, invece le dinamiche son rimaste uguali. È la modalità che è cambiata, sia essa digitale, globalizzata, esclusivista o monoteista. La dialettica politica e civile ha preso solo nuove forme e sta a chi vive il mondo decidere se esserne semplice auditore, spettatore o partecipante attivo. Emanciparsi mentalmente, fisicamente e affettivamente è un passaggio importante in questo processo, tenendo conto realisticamente della verità che Creonte consegna al figlio Ermone.

«Si è completamente soli, il mondo è spoglio e tu mi hai ammirato già per troppo tempo.»

Nunzia Schiano a teatro acciufferà i ‘White Rabbit, Red Rabbit’?

By Luca Pinto
Nunzia Schiano in White Rabbit Red Rabbit al Piccolo Bellini

“White Rabbit, Red Rabbit”, una pièce teatrale che fa il giro del mondo dal 2011, ha deciso di approdare a Napoli. O meglio 369gradi – centro di produzione e diffusione della cultura contemporanea – e Piccolo Bellini portano questo lavoro a contatto col pubblico partenopeo. Si tratta di un’opera scritta da Nassim Soleimanpour nel 2010.

Nassim è un autore iraniano che non ha il passaporto per poter girare il mondo, dal momento che in Iran vige una legge per la quale se non si osservano due anni di servizio militare non si può espatriare. Dunque Nassim Soleimanpour decide di scrivere un testo e farlo viaggiare al posto suo. Questa mera idea non per forza doveva essere un successo formidabile. Invece al “Fringe Festival di Edimburgo” del 2011 colpisce pubblico e critica in maniera così imponente da essere tradotta in 20 lingue diverse e interpretata da grandissimi attori. Una su tutte Whoopi Goldberg che non è molto lontana nella sua verve, comica e saggia allo stesso tempo, dall’italiana Nunzia Schiano.

‘White Rabbit, Red Rabbit’ di Nassim Soleimanpour, un autore esiliato sul palco internazionale

Il concetto chiave dello spettacolo si basa su uno dei cardini live del teatro l’hic et nunc: il qui ed ora. Sul palcoscenico tutto avviene sempre per la prima volta e in maniera veritiera. Perché allora non consegnare all’attore un copione in diretta, in busta chiusa? L’attore lo aprirà sul palco e da quel momento in poi tutti saranno partecipi dello spettacolo. Tutti saranno attori e tutti spettatori. Lo stesso attore sarà spettatore in quanto veicolo del messaggio dell’autore. E, giochi di parole a parte, è questa l’atmosfera che la capace Nunzia Schiano ha voluto ricreare.

Nunzia è un attrice di comprovata esperienza teatrale. Famosa alla cronaca per i suoi caratteri comici cinematografici, che ogni tanto hanno preso vita anche sul palco del Piccolo Bellini di Napoli. 60 gli spettatori presenti in questa cornice magica di poltrone rosse vellutate sul roof del Bellini. Un palcoscenico scarno di scenografia, illuminato dai semplici proiettori, senza gelatine colorate. Un tavolo, una sedia, due bicchieri di acqua, un’ attrice e un copione. Mescolate il tutto per circa due ore con maestria e otterrete “White Rabbit, Red Rabbit”.

Ritornando a Nunzia Schiano e alla sua interpretazione, l’attrice è stata un’abile conduttrice della serata dovendosi alternare anche in questo ruolo. Era impegnata appunto su tre livelli. Doveva leggere le parole di Nassim Soleimanpour, doveva interpretare in alcuni momenti e poi coinvolgere direttamente il pubblico in altri. Tutti sapevano della sua abilità nei ruoli comici, quindi sarebbe stato semplice per l’interprete affidarsi soltanto a quella chiave di lettura: far ridere il pubblico, essere dirompente trascinatrice e uscire di scena tra il clamore della folla. Tutt’altro, Nunzia non ha ceduto a queste facili lusinghe. Oltre ad essere stata una professionista impeccabile, una latrice di verità sul palco, è stata brava a dosare momenti grevi e momenti comici. Ma soprattutto ad apportare con opportune digressioni il suo contributo al testo, abile nell’utilizzo delle pause, che nella tradizione teatrale partenopea in genere solo un uomo (ndr. Eduardo De Filippo) era così capace di fare…

Nunzia Schiano si divide in tre: attrice ‘coautrice’ e spettatrice!

Senza rifuggire in futili paragoni, la cosa che colpisce di più è la prospettiva con la quale Nunzia si è proiettata in questo lavoro. Si può immaginare che lei si sia sentita come un comune spettatore che viene chiamato sul palco a leggere un testo per la prima volta. Un testo di cui non sa nulla e che può sorprenderlo in maniera positiva come negativa. Lei ha avuto l’abilità di far sentire tutti su quel palco, immedesimandosi nell’attrice. E poi dava del “tu” all’autore come se lo conoscesse da sempre, come un partenopeo fa anche con le più alte cariche sacre e religiose della città. Questa chiave di interpretazione, di immedesimazione, di compenetrazione, di intelligenza è risultata vincente, convincente e appassionante. Solo un’artista con un certo grado di maturità e consapevolezza dei suoi mezzi riesce a prodursi in un accorato gesto d’affetto simile verso lo spettatore. Ovviamente il canovaccio era interessante, a tratti brillante, a tratti serissimo, dava spunto a riflessioni sicuramente. Contemporaneamente l’intreccio è tutto legato ad un unico aneddoto particolare, dunque da lì nasce la complementarità importante con un attore all’altezza.

“White Rabbit, Red Rabbit” è una pièce unica, originale e spontanea. La trama va conosciuta sul palco, a teatro, in diretta. I complimenti vanno a 369gradi per la scelta dell’opera e al Piccolo Bellini per il coraggio di crederci. Mentre per il senso della misura, la professionalità, l’amore verso il teatro e il pubblico, per la consapevolezza dei propri mezzi, la riflessione e la ricerca  continua di se stessa senza cadere mai nello scontato, vanno a Nunzia Schiano. Restano solo due parole: da vedere!

Biografia di Nunzia Schiano

Nunzia Schiano nasce a Portici, in provincia di Napoli, nel 1959, ed è tanto l’amore che la lega alle sue origini e alla sua città, che continua a viverci. Finito il liceo classico, frequenta l’università e inizia subito a muoversi nel mondo teatrale, costituendo una cooperativa con altri colleghi e proponendo testi di Viviani, Petito, Basile, Ionesco, Courteline, Lorca. Importanti sono gli incontri con registi del calibro di Renato Carpentieri (progetto Museum), Davide Iodice (Zingari), Luca De Fusco (Antigone), Andrea De Rosa (Maria Stuarda), Geppy Gleijeses (Così parlò Bellavista ), Liliana Cavani (Filumena Marturano). Arriva anche il cinema con varie partecipazioni. “Sul mare” di A. D’Alatri, “Benvenuti al Sud” (2010) e “Benvenuti al Nord” (2012), entrambi di Luca Miniero,  nel ruolo della mamma di Alessandro Siani. “La kriptonite nella borsa” di Ivan Cotroneo. “Reality” e “Dogman” di Matteo Garrone. Da annoverare anche anche alcune significative partecipazioni alle fiction delle tv generaliste: 2016 “Rimbocchiamoci le mani” con Sabrina Ferilli su Canale 5, nel 2017 “I Bastardi di Pizzofalcone” e nel 2018 “L’Amica geniale“. Per Fox “ROMOLO e Giuly, la guerra mondiale”.

1 Comment
    LUCIA Formisano says:
    Giugno 22nd 2019, 10:15 pm

    La descrizione dell’opera è stata così minuziosamente perfetta tanto da non farmi rimpiangere l’assenza. Complimenti all’autore del testo.

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